Editoriale

Maurizio Rossini

Dipartimento di Medicina, Sezione di Reumatologia, Università di Verona

Cari Lettori, come state? Spero bene. 

Anche in questo numero raccogliamo importanti contributi su due tematiche di grande attualità nel campo dei possibili effetti extra-scheletrici della vitamina D: un update sulla relazione tra vitamina D e muscolo e un altro sulla sua relazione con l’asma e una delle maggiori cause della sua esacerbazione rappresentata dalle infezioni respiratorie. Quest’ultimo topic non poteva non fare riferimento anche alla tematica del momento rappresentata dall’infezione da COVID-19.

Come potete vedere dalla selezione bibliografica di questo numero abbiamo ritenuto opportuno dedicare uno spazio riservato alle pubblicazioni in tema di vitamina D e COVID-19, tante erano. La discussione tuttora in corso è relativa in particolare a due aspetti: è possibile che lo stato vitaminico D possa condizionare il rischio di infettarsi e/o la manifestazione clinica del COVID-19?

Come sapete i presupposti razionali ci sono e allo stato delle attuali conoscenze sono qui sintetizzabili e differenziabili in generici e specifici:

generici:

studi in vitro hanno evidenziato che la vitamina D migliora la risposta immune innata, quale la risposta macrofagica, e può aumentare le difese antivirali, favorendo la produzione di peptidi antimicrobici come la catelicidina e la β-defensina;

studi osservazionali hanno documentato un’associazione tra bassi livelli sierici di 25(OH)D e la suscettibilità alle infezioni respiratorie;

una recente metanalisi ha mostrato che la supplementazione giornaliera o settimanale di vitamina D riduce significativamente il rischio di incorrere in un’infezione acuta delle vie respiratorie, non sorprendentemente in particolare nei soggetti carenti;

alla vitamina D è riconosciuto, anche da AIFA, un effetto “immunomodulante”; la vitamina D è risultata in grado di attenuare in particolare la risposta immunitaria adattativa e in particolare citochinica (tra cui soprattutto IL-6), riducendo la reazione di fase acuta post-virale, che, se esagerata, contribuisce alla patogenesi delle più gravi manifestazioni cliniche dell’infezione virale (il cosiddetto danno da “fuoco amico”);

la supplementazione con vitamina D di pazienti sottoposti a ventilazione meccanica per varie cause è risultata in grado di ridurre la durata del ricovero e i livelli di PCR e IL6;

specifici per COVID-19:

maggiore mortalità nelle Nazioni del Sud Europa (Italia, Spagna), notoriamente con una maggiore prevalenza del deficit di vitamina D, rispetto a Nazioni del Nord Europa (Germania, Norvegia, Finlandia, Islanda) che hanno un introito alimentare di vitamina D maggiore, grazie anche alla usuale fortificazione dei cibi;

maggiore prevalenza dell’infezione da COVID-19 nelle Regioni del Nord Italia, rispetto alle più soleggiate Regioni del Sud o alle popolazioni sotto il 35° parallelo; 

particolare incidenza e gravità dell’infezione nella popolazione anziana nella quale l’ipovitaminosi D è notoriamente e storicamente endemica, specie nei mesi invernali e nella prima primavera, e drammaticamente e cronicamente presente in condizioni di lungodegenza;

l’obesità, notoriamente associata spesso a ipovitaminosi D, è risultata un fattore di rischio significativo per morbilità e mortalità da COVID-19;

correlazione inversa tra i livelli sierici di vitamina con incidenza e mortalità da COVID-19;

associazione inversa tra livelli di 25(OH)D e severità dell’infiammazione sistemica e delle manifestazioni cliniche in ricoverati per COVID-19, anche se va onestamente considerato che è noto che la flogosi di per sé riduce i livelli di 25(OH)D dosabili;

modulazione da parte della vitamina D del sistema renina-angiotensina e dell’espressione del recettore ACE2, noto come punto d’ingresso del virus nelle cellule umane.

Come vedete la plausibilità biologica di un ruolo protettivo della vitamina D nei confronti del rischio e/o della gravità delle manifestazioni cliniche dell’infezione da COVID-19 c’è. 

Ciò tuttavia non basta. 

Proclami anticipati e generici di un ruolo protettivo della vitamina D, non supportati da adeguata documentazione scientifica specifica, ne hanno determinato la classificazione tra le bufale da parte del Ministero della Salute. Io non ne sarei tuttavia così sicuro perché non vi è neppure evidenza scientifica che ciò non sia vero… e scoraggiare, in attesa dei risultati dei trial specifici in corso, una supplementazione sicura ed economica con vitamina D, in particolare negli anziani o se costretti a casa o lungodegenti, non mi sembra opportuno in condizioni di emergenza da COVID-19, specie se si considerano perlomeno i riconosciuti benefici scheletrici. 

Mi preoccupa tra l’altro la riduzione di oltre il 30% della supplementazione con vitamina D osservata nei primi mesi dell’anno anche negli anziani in seguito alla pubblicazione della nota AIFA 96, che ignora l’età avanzata come fattore di rischio di ipovitaminosi D, non considerando la documentata progressiva riduzione dai 60 anni (sic…la mia età…) della capacità della pelle di sintetizzare vitamina D e il nadir stagionale. Trattasi di una perlomeno sfortunata coincidenza con il picco dell’infezione da COVID-19 in Italia… e comunque di un ulteriore motivo di preoccupazione per la salute dello scheletro dell’anziano.

Cosa ne pensate?

Buona lettura!

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