Cari Lettori
in questo numero torniamo sul tema del possibile rapporto tra vitamina D e rischio di infezione o di grave manifestazione clinica dell’infezione da SARS-CoV-2.
Lo facciamo perché le pubblicazioni scientifiche su questo topic sono ancora numerose (più di 80 nell’ultimo quadrimestre come potete vedere nella selezione bibliografica) e con risultati talora contradditori, lungi dal consentire conclusioni e tantomeno certezze in un senso o nell’altro, come invece qualcuno si permette di fare, secondo me in maniera inappropriata e imprudente.
Lo facciamo perché il COVID-19 continua tuttora a mietere un numero rilevante di vittime e tante sono ancora le incognite sulla rilevanza sanitaria e sociale delle manifestazioni cliniche delle infezioni da varianti del SARS-CoV-2 nella prossima stagione invernale.
Abbiamo sentito pertanto il bisogno di un aggiornamento e di una sintesi, rigorosa e obiettiva, sullo stato attuale delle conoscenze scientifiche sul tema, compito affidato, com’è consuetudine di questa Rivista, a esperti che ci hanno lavorato e pubblicato.
Nel primo articolo troverete riassunti razionale, evidenze e dubbi sul possibile ruolo della vitamina D nel condizionare il rischio di infezione da SARS-CoV-2 e la severità del COVID-19. L’Autore giustamente parte riassumendo le attuali evidenze sul ruolo fisiologico della vitamina D in ambito di immunità innata, in particolare ad azione antimicrobica, e di immunità acquisita, ad azione modulatrice prevalentemente antinfiammatoria e favorente la tolleranza immunitaria. Poi sintetizza le evidenze sull’associazione tra stato vitaminico D e il rischio specifico di infezione da SARS-CoV-2, incluse quelle indirette come l’alta prevalenza di ipocalcemia nei pazienti ospedalizzati per COVID-19, possibile espressione di disregolazione dell’omeostasi fosfocalcica da carenza di vitamina D, o la ridotta esposizione a raggi UVB, che notoriamente condiziona primariamente lo stato vitaminico D. Da notare che l’esperienza ben pubblicata dallo stesso Autore dell’articolo non ha invece evidenziato alcuna relazione diretta tra indici di esposizione solare (tra cui il confinamento domestico durante il lockdown), livelli sierici di 25(OH)D e infezione da SARS-Cov-2, ammettendo tuttavia la possibile esistenza di altre variabili non considerate. L’Autore giustamente evidenzia la forte dipendenza da co-variabili dell’associazione descritta in numerosi studi tra vitamina D e rischio di infezione (ad es. età avanzata, comorbilità, adiposità, genere, etnia, eventuale supplementazione, peraltro quest’ultima spesso non riportata) per cui la carenza di vitamina potrebbe essere non la causa ma la conseguenza o semplicemente un marcatore di rischio.
Lo stesso dubbio interpretativo caratterizza anche le numerose osservazioni attualmente riportate sulla correlazione inversa tra stato vitaminico D e severità del COVID-19. Tuttavia allo stato attuale delle conoscenze non si può escludere una possibile co-responsabilità della carenza di vitamina D nel condizionare la gravità di alcune manifestazioni cliniche della malattia e i suoi esiti (ospedalizzazione, ricorso alla ventilazione meccanica, trasferimento in terapia intensiva e mortalità). Alcuni possibili meccanismi fisiopatologici attraverso i quali la carenza di vitamina D contribuirebbe alla patogenesi del COVID-19 sarebbero peraltro noti: la vitamina D ha la capacità di mitigare la tempesta citochinica e agisce da modulatore endocrino del sistema renina-angiotensina-aldosterone, entrambi coinvolti nella patogenesi dell’acute respiratory distress syndrome. Una risposta alle attuali incertezze potrebbe derivare da trial randomizzati e controllati (RCT) di supplementazione con vitamina D, purché ben disegnati da punto di vista razionale e ricordando che la vitamina D potrebbe agire anche in questo campo fondamentalmente come un nutriente e quindi potrebbe rivelarsi utile solo in chi è carente. Le metanalisi dei pochi studi di questo tipo attualmente disponibili sembrerebbero indicare un’efficacia su alcuni outcome, anche se limitata.
è tuttavia innegabile che lo stato attuale delle conoscenze sul tema è caratterizzato da un’ampia variabilità e frequente discrepanza di risultati, tale da meritare una revisione critica della letteratura, che troverete nel secondo articolo di questo numero. Gli Autori vi riassumono alcuni dei maggiori punti deboli delle attuali pubblicazioni disponibili, evidenziando in particolare che gran parte dell’attuale confusione deriva dalla frenesia a pubblicare e dall’utilizzo di strumenti di ricerca inadeguati o di trial mal progettati. Innanzitutto, come riconosciuto anche dall’Autore del primo articolo, il bias della relazione temporale tra dosaggio di vitamina D e diagnosi di COVID-19, che varia nei diversi studi da 1 anno prima alla valutazione contestuale. Ciò appare rilevante anche in considerazione della nota reverse causality, cioè del fatto che la malattia stessa, attraverso la condizione di flogosi, si associa di per sé a una riduzione dei valori plasmatici di 25(OH)D. Noterete che la significatività statistica delle correlazioni tra livelli sierici di 25(OH)D e i diversi outcome dipende se il dosaggio è stato fatto prima o in corso di ospedalizzazione. La qualità dei lavori attualmente disponibili è inoltre eterogenea, con diversi studi classificati come low quality, essendo esposti a fattori confondenti o mancando di dettagli o di adeguatezza metodologica. Vi è poi il problema del publication bias, derivante dalla tendenza a privilegiare la pubblicazione di studi con risultati positivi. Altri problemi che hanno caratterizzato talora la letteratura sul tema del COVID-19 sono la troppa fretta nell’avvallare alcuni dati preliminari, l’eccessiva semplificazione con conclusioni generiche non sostenute dalla significatività statistica e la deroga, considerata la situazione emergenziale, a includere nelle metanalisi di RCT anche studi osservazionali. Ciò ha determinato la pubblicazione di molteplici analisi di bassa qualità, con numerosi fattori confondenti e con risultati di conseguenza contradditori, che hanno esposto la comunità scientifica al rischio di perdita di credibilità. Tutto ciò ha contribuito al persistere tuttora dell’incertezza sull’utilità della supplementazione con vitamina D per la prevenzione e il trattamento del COVID-19. Personalmente temo che un giorno qualcuno concluderà che, anche in questo campo, per la correzione di una carenza, considerati il razionale e la sicurezza, sarebbe bastato utilizzare il buon senso…
Cosa ne pensate ?