Editoriale

Maurizio Rossini

Dipartimento di Medicina, Sezione di Reumatologia, Università di Verona

Carissimi, non so voi ma io comincio a chiedermi se nell’acritica applicazione della metodologia statistica alla base dell’Evidence Based Medicine abbiamo dimenticato il presupposto che dovrebbe guidarla: il razionale fisiopatologico e clinico. Mi spiego meglio. Sul Journal of the American Medical Association (JAMA) è stata pubblicata recentemente la raccomandazione dell’United States Preventive Service Task Force (USPSTF) sull’uso della supplementazione con vitamina D e/o calcio per la prevenzione primaria delle fratture negli adulti viventi in comunità. Si conclude che sulla base degli studi disponibili non vi sono evidenze sufficienti in termini di bilancio rischi/benefici per raccomandare la supplementazione con calcio e vitamina D e anzi si sconsiglia nelle donne in postmenopausa la supplementazione con dosi di vitamina D e calcio ≤ 400 UI o 1000 mg/die rispettivamente perché aumenta il rischio di calcolosi renale. Peccato che queste raccomandazioni non siano applicabili a persone con una storia di fratture osteoporotiche, con aumentato rischio di cadute, o con diagnosi di osteoporosi o di carenza di vitamina D (!), visto che queste erano in gran parte escluse dagli studi considerati. Visto che il buon senso ci dice, sulla base delle conoscenze di fisiopatologia, che la vitamina D serve solo quando manca … secondo me è come aver dimostrato che è inutile (se non dannoso) accendere una lampadina in una stanza nella quale non manca la luce! Per raggiungere questa conclusione c’era bisogno di una task force e di una complessa analisi? 

Mi preoccupa anche l’impatto mediatico del messaggio conclusivo, che immagino sarà talvolta semplificato e comunicato o recepito in maniera acritica per esigenze editoriali od incompetenza.

E nelle persone a rischio di carenza? Smettiamo di fare prevenzione e attendiamo di documentarla, con relativi costi, o magari interveniamo solo quando la persona diventa paziente cioè sintomatica? Va anche considerato infatti che la stessa Task Force, secondo me giustamente, definisce insufficienti le evidenze in termini di bilancio benefici/rischi di uno screening del deficit di vitamina D in adulti asintomatici.

Credo d’altra parte che sia giustificato cercare di ridurre i costi esorbitanti della supplementazione con vitamina D ridimensionando le aspettative, migliorando l’appropriatezza dell’intervento, semplificandolo anche ricorrendo al solo buon senso ed evitando il ricorso alle soluzioni inutilmente più costose. 

Una novità è rappresentata dalla recente autorizzazione all’immissione in commercio da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) di una nuova formulazione del calcifediolo in capsule molli. Ben vengano nuove soluzioni, specie se a basso costo, che allargano le opzioni terapeutiche dei medici nell’interesse dei pazienti, anche se va ricordato che è il colecalciferolo a rappresentare la forma della vitamina D fisiologicamente prodotta e metabolizzata. Quello che mi lascia perplesso è l’RCP (riassunto delle caratteristiche del prodotto) del nuovo prodotto a base di calcifediolo. In particolare mi preoccupa:

  • L’espressione inappropriata del contenuto in UI di vitamina D, quando è noto che il calcifediolo non è assolutamente comparabile al colecalciferolo in termini di farmacocinetica e forse anche di farmacodinamica e vi sia tuttora discussione sull’entità del rapporto di equivalenza tra i due. Ciò potrà generare un ulteriore motivo di confusione sui dosaggi di vitamina D, peraltro pericolosa in termini di safety;
  • L’indicazione e la dose raccomandata per il “trattamento della carenza di vitamina D nei casi in cui risulta necessaria la somministrazione iniziale di dosi elevate …”: 0,266 mg di calcifediolo una volta al mese è da considerarsi una dose elevata se risulta la metà di quella ritenuta necessaria in recenti studi della Scuola del prof. Minisola e considerato che l’emivita del calcifediolo è limitata a 2-3 settimane?
  • L’indicazione del “trattamento della carenza di vitamina D nei casi … in cui sia preferibile una somministrazione dilazionata nel tempo, come nelle seguenti condizioni: come coadiuvante nel trattamento dell’osteoporosi, nei pazienti affetti da sindrome da malassorbimento, osteodistrofia renale, nelle patologie ossee indotte dal trattamento con corticosteroidi”. Quali sono le evidenze a sostegno di trattamenti con calcifediolo preferibilmente dilazionati nel tempo in queste patologie?
  • L’esigenza più volte ribadita di un “regolare controllo delle concentrazioni sieriche del 25-OH-colecalciferolo”: questa prudenza potrebbe derivare dal fatto che l’incremento dei livelli sierici del 25-OH-colecalciferolo in seguito all’uso del calcifediolo, a differenza di quanto avviene con il colecalciferolo, non è fisiologicamente regolato. Peccato che l’uso di questa formulazione di calcifediolo, effettivamente poco costosa, potrà essere così gravato da elevati costi di gestione nella pratica clinica;
  • L’affermazione che ”in caso di insufficienza epatica, l’assenza di produzione di sali biliari darà luogo a incapacità di assorbire il calcifediolo”, quando invece è riportato che l’assorbimento intestinale del calcifediolo, a differenza di quello del colecalciferolo, si realizza largamente tramite la vena porta e non dipende dalla presenza di acidi biliari, tanto da giustificare, considerato anche il possibile deficit di 25OH-idrossilasi in condizioni di grave insufficienza epatica, l’uso preferibile del calcifediolo proprio in questa condizione.

Voi cosa ne pensate?

Buona lettura.

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